MIGRARE E’ UMANO. IDENTITA’ IN ATTESA DI GIUDIZIO.
Il Coordinamento Palermo Pride ha scelto di mettere al centro del Pride di quest’anno, così come del lavoro politico che lo precede, il tema delle Migrazioni e delle persone migranti.
Lo abbiamo fatto con la consapevolezza di chi sceglie di stare dalla parte giusta della Storia: quella in cui il “migrare” dovrebbe essere una scelta ed una opportunità, un diritto prima ancora che una necessità; e l’accoglienza, attraverso frontiere aperte, dovrebbe essere considerata una risorsa ed una necessità, un atto consapevole di costruzione di comunità più solidali e più feconde (umanamente e culturalmente oltre che economicamente) prima ancora che un atto di pietà umana o una concessione politica. Lo abbiamo fatto con la consapevolezza che il Mondo globale della libera circolazione delle merci e delle informazioni non è ancora quello della libera circolazione delle persone. Nell’era della globalizzazione, delle reti e della Rete, dell’annullamento delle distanze, continua ad essere ancora troppo forte la tentazione dei Muri, dei Confini, delle armi e del filo spinato a difesa dello spazio “nazionale” inteso non come porta verso l’altro(ve) ma come perimetro da difendere con le serrature. La crisi di Schengen ci dice che questo processo avviene all’interno di quella stessa Europa che si crede cosmopolita e libera, e mentre i flussi interni si moltiplicano nutrendosi soprattutto di una generazione in fuga (dalla fine del welfare e dallo sfruttamento sul lavoro), moltiplica i confini e nega la libertà di circolazione.
Lo abbiamo fatto con la consapevolezza che nella narrazione mediatica internazionale il linguaggio delle percentuali, dei flussi ridotti a numeri, dei profughi e dei rifugiati, delle politiche statali, degli hotspot e dei documenti di identità ha finito col cancellare la percezione che stiamo parlando di uomini e donne, ragazzi e ragazze, bambini e bambine. Nomi e facce e storie reali, non riducibili a frazione statistica. Corpi, soprattutto. Quelli che sappiamo riconoscere con pietà quando annegano e diventano cadaveri ma verso i quali perdiamo ogni pietà quando sono vivi e portano con sé diritti, desideri, progetti di vita.
Lo abbiamo fatto con la consapevolezza, soprattutto, che quando parliamo di Migrazioni e di persone migranti non stiamo parlando di “altro” né rispetto al Movimento Lgbt, né rispetto agli sfruttati di tutta Europa, ma stiamo parlando di noi. Non solo perché si può essere migranti ed al contempo anche persone lgbt; e non solo perché la violenza della discriminazione fondata sul Genere e sull’Orientamento Sessuale è una delle ragioni per cui si fugge (o si sceglie di andar via) dai luoghi di origine.
Da un lato, è anche perché è nomade la stessa forma di vita del precariato diffuso. Dall’altro, anche e specialmente perché i percorsi attraverso i quali ogni persona lesbica e gay prende consapevolezza del proprio orientamento sessuale e costruisce la propria elaborazione riguardo ad esso, così come i percorsi di transizione di ogni persona transessuale sono, a tutti gli effetti, atti di “migrazione”. Attraverso luoghi non fisici ma del pensiero, quali sono le identità, le costruzioni culturali sui Generi e le reazioni del Potere rispetto alle Differenze.
Per raccontare quanto sia sbagliato il nostro percepirci “altro” rispetto alle donne ed agli uomini migranti (e con la premessa che parte di quanto detto a proposito delle persone transessuali si può estendere appunto ad ogni persona che attraversa le identità per costruire la propria percezione di sé e la propria relazione col mondo) ci piace usare le parole dello scrittore e filosofo Paul B. Preciado.
“[La parola Transizione] cerca di descrivere la trasformazione da uno stato all’altro e al contempo accentua il carattere temporaneo e quindi provvisorio del processo. Tuttavia, il processo di transizione non designa il passaggio dalla femminilità alla mascolinità (questi due generi infatti non possiedono un’entità ontologica ma solo biopolitica e performativa), ma quello che porta da una macchina di produzione di verità a un’altra. La persona transessuale è rappresentata come una sorta di esiliata che si sarebbe lasciata alle spalle il genere che le è stato assegnato alla nascita (come se avesse abbandonato la sua nazione) e che sta ormai cercando di essere riconosciuta come una potenziale cittadina di un altro genere. In termini politici e legali, lo statuto della persona transessuale è paragonabile a quello del migrante, dell’esiliato o del rifugiato. Tutti si trovano in un processo temporaneo di sospensione della loro condizione politica. Nel caso delle persone transessuali, come in quello dei corpi migranti, quel che viene richiesto è un rifugio biopolitico: essere i soggetti di un sistema d’assemblaggio semiotico che dà senso alla vita.
L’assenza di riconoscimento legale e di sostegno bioculturale nega sovranità ai corpi transessuali e migranti e li pone in una posizione di vulnerabilità sociale molto elevata. Detto in altri termini: la densità ontologico-politica di un corpo transessuale o di un corpo migrante è inferiore a quella di un cittadino il cui genere e la cui nazionalità sono riconosciuti dalle convenzioni amministrative degli stati-nazione nei quali abitano. Usando i termini di Althusser, potremmo dire che transessuali e migranti sono messi nella situazione parodistica di dover domandare di essere riconosciuti come soggetti da quegli stessi apparecchi ideologici di stato che li escludono. Domanderemo di essere riconosciuti (e quindi sottomessi) per poter inventare delle forme di asservimento sociale volontario. Ciò che transessuali e migranti sollecitano, facendo domanda d’asilo o di cambio di genere, sono le protesi amministrative (nomi, diritto di residenza, documenti, passaporti e via dicendo) e bioculturali (alimenti, medicine, componenti biochimici, rifugio, linguaggio, autorappresentazione) necessarie a costruirsi come finzioni politiche viventi. Quella che chiamiamo “crisi” dei rifugiati o il “problema” delle persone transessuali non potrà essere risolto costruendo dei campi per rifugiati o delle cliniche di riassegnazione sessuale. Sono in crisi i sistemi di produzione di verità, di cittadinanza politica e le tecnologie dello stato nazionale, così come l’epistemologia del sessogenere binario. Di conseguenza è lo spazio politico nel suo insieme che deve entrare in transizione.” (Paul B. Preciado, articolo apparso su “Libération” il 27 maggio 2016 e pubblicato in Italia da “Internazionale”).
Paul era Beatriz alla nascita, quindi è inevitabile che parta da sé e dalla sua esperienza di persona transessuale per raccontare le ragioni di questa inevitabile “sorellanza” politica tra due distinte comunità (quella delle persone migranti e quella delle persone transessuali) che come Coordinamento Palermo Pride e come Movimento Lgbt all’interno di esso assumiamo come tema centrale del nostro documento politico per il Pride 2016.
Assumiamo queste ragioni e le consegniamo al confronto pubblico (che parte quest’anno ma non si esaurisce con questo Pride) perché riteniamo che la lettura proposta da Preciado ci fornisca la chiave per costruire un linguaggio di liberazione per tutte e tutti. E’ il concetto di “confine” inteso come limite non valicabile che è nemico contemporaneamente delle donne e degli uomini migranti come delle persone lgbt. In questo senso non vi è differenza tra il confine geografico e quello identitario. Ed il senso di questa riflessione è che non può esservi nessuna libertà reale nel passaggio tra spazi ridotti a sistemi di produzione di verità assolute. La sfida è quindi quella di abbattere il binarismo implicito nel passaggio da uno stato nazionale all’altro come nel passaggio da un Genere all’altro.
Una persona migrante fugge da (o nella migliore delle ipotesi sceglie di lasciare) un luogo dove valgono una serie di regole che permettano di essere riconosciuti come soggetti appartenenti a quella comunità; regole che determinano come deve costruire la propria identità di cittadino/a ed il proprio contributo ai processi di produzione. E lo fa per giungere in un altro luogo in cui valgono regole (talvolta) differenti ma animate dagli stessi obiettivi.
Non è un caso che il concetto di “accoglienza” possa non essere visto come contraddittorio rispetto alle aberrazioni dei campi di contenimento, degli hotspot, persino dei Muri: perché il processo di accoglienza non è, come il termine dovrebbe presupporre, un “accoglimento” ma una selezione per decidere chi ha il diritto di sottoporsi ad una nuova sovranità; quella rappresentata dallo Stato cui si chiede rifugio. Allo stesso modo, la transizione da un Genere all’altro (così come i processi di costruzione identitaria a partire dalla differenza di orientamento sessuale) è ad oggi il passaggio tra codici e regole indiscutibili. Per questo la nostra battaglia non può che essere quella dell’abbattimento del “Confine” inteso come spazio che delimita macchine di produzione di Verità.
Non è, quindi, la partenza da un luogo per arrivare altrove il vero Diritto, ma il viaggio inteso come libera scelta, come opportunità non solo per la persona che cambia Paese ma anche per chi la accoglie. Allo stesso modo in cui come persone lesbiche, gay e transessuali dobbiamo combattere per abbattere il binarismo dei Generi ridotti a macchine produttrici di gabbie ed affermare che la liberazione sessuale è nella transizione e nella costante messa in discussione del punto di arrivo (temporaneo). Non dovrebbe essere il diritto di fuggire da un Paese per arrivare in Europa l’oggetto della discussione, ma quanto ogni uomo ed ogni donna siano realmente cittadini/e del Mondo; o se questo non sia un lusso consentito pochi/e tra noi. La riflessione dovrebbe quindi spostarsi dall’accoglienza (che proprio per questo è ridotta ad atto di generosità condizionata) ai meccanismi di costruzione di Stati (sovra)Nazionali come spazi di libertà per le merci ma di contenimento e sfruttamento condizionato per le donne e per gli uomini.
Ed è quasi un dovere fare questa riflessione, così come quella sulla “sorellanza” tra comunità differenti, a partire da Palermo: spazio di frontiera, confine dell’Europa ma al contempo luogo del Mediterraneo. Perché riflettere a Palermo del concetto di “porta” inteso non come muro limitante ma come spazio dell’attraversamento è il modo più efficace, se accettiamo la chiave di lettura proposta da Paul B. Preciado, per ri-pensare, come Movimento Lgbt, la nostra stessa lotta di liberazione.
Palermo, città meridiana e mediterranea; Palermo diaframma tra la Fortezza Europa e il mondo che la circonda; Palermo città di migrazione extraeuropea, ma anche interna; protagonista del dramma della disoccupazione giovanile, della migrazione un tempo dal Sud al Nord dell’Italia, oggi con la stessa direzione su scala europea. E come Barcellona e Napoli, Palermo ha l’opportunità di dichiararsi città ribelle e disobbediente ai confini, metropoli produttiva di passaggi e ponti e non di muraglie e perimetri.
Ciò vuole essere questo documento è la proposta di una chiave di lettura che arricchisce, e non sostituisce, le rivendicazioni storiche del Movimento Lgbt soprattutto in occasione del Pride. Cioè la lotta contro ogni tipo di discriminazione fondata sulla differenza di Genere e di Orientamento Sessuale ed il riconoscimento di diritti pieni, non parziali, a partire da quello alla piena affermazione di sé come persone singole e come soggetti di relazioni affettive, solidali, familiari. Rivendicazioni presenti da decenni nei documenti di ogni nostro Pride e che non vengono meno dopo il recente e del tutto insufficiente intervento del Parlamento.
Sconfinare significa puntare in alto: le unioni civili sono, nella forma attuale, un modo di “accogliere” la comunità LGBT solo per gestirla differenzialmente; disobbediamo dunque anche ai confini tra unioni riconosciute, e chiediamo di più, cioè il riconoscimento paritario di forme di relazione che esistono già e per quelle che dobbiamo inventare, monogamiche e non, intraeuropee e meticce. La nostra rete non è di recinzione, è una rete di affetti e relazioni solidali: è una rete di salvataggio.